Articolo
Costruire comunità di pratica:
una via italiana alla leadership adattiva di Stefano Zordan
Leadership: un problema di linguaggio Quando nell’inverno del 2017, terminati i miei studi all’Università di Harvard, mi imbarcai nel lavoro di traduzione e curatela dell’edizione italiana dell’ultimo volume dei miei professori Ronald Heifetz e Marty Linsky “La Pratica della Leadership adattiva: Strumenti e tattiche per trasformare le organizzazioni e le comunità (Franco Angeli, 2018), mi apparve chiaro fin da subito come i problemi di leadership che spesso lamentiamo abbiano in realtà una radice nell’uso poco preciso delle parole della leadership. Questa confusione linguistica è senza dubbio dovuta allo status di ‘area di studio’ e non di disciplina attribuito ai leadership studies, che causa mancanza di consenso anche sui vocaboli più basilari che ne definiscono il campo. Questa incertezza è poi aggravata dalla proliferazione di nuovi modelli e sottomodelli di leadership che spesso poggiano su interpretazioni a dir poco creative – se non del tutto devianti – del concetto di leadership. Definizioni simili rinsaldano concezioni diffuse su leadership, potere e autorità che contribuiscono a creare “leader” che, anziché lavorare alla risoluzione delle sfide con cui le loro comunità si devono confrontare, talvolta le aggravano. Questa dinamica ha quindi prodotto sospetto e idiosincrasia verso la stessa parola ‘leadership’, che molti mi consigliarono di cassare completamente dal titolo del libro. Tale consapevolezza si è fatta via via più chiara e ha informato il mio lavoro di diffusione dell’approccio della leadership adattiva in Italia, prima attraverso l’associazione ‘Sistema Italia’ e poi con l’apertura dell’Adriano Olivetti Leadership Institute a Ivrea (TO), nello storico edificio che ospitava il Centro servizi sociali Olivetti. Un lavoro di formazione che dedica ampio spazio all’analisi dei termini della leadership e delle loro etimologie, che diventano pilastri di una pratica rinnovata. Dai numerosi incontri con le tante comunità territoriali, professionali, valoriali e intenzionali che compongono il nostro Paese emergono infatti visioni di leadership in cui spesso la speranza e l’impegno per un futuro diverso sono offuscati da un senso di impotenza e da personalismi che legano il cambiamento all’azione estemporanea di supposti ‘leader’. A queste concezioni personalistiche l’approccio adattivo offre un 2 correttivo sistemico, che pone le sfide al centro ed enfatizza il potenziale risolutivo insito in un dato gruppo. Questo framework è poi posto in costante dialogo generativo con il pensiero di Adriano Olivetti (1901-1960), imprenditore, politico e innovatore sociale che ha fatto di Ivrea, mia città natale e sede dell’istituto a lui intitolato, un laboratorio di lavoro e di vita entrato nella lista dei siti patrimonio dell’umanità dell’UNESCO nel 2018. La concezione di leadership che si va delineando man mano che si consolida la pratica dell’istituto Olivetti vede nella comunità l’unità di misura dell’azione di leadership: la leadership porta una comunità – la comunità per cui viene offerta, contribuita, esercitata – a prendere coscienza dell’urgenza di intervenire sulle proprie sfide di cambiamento e a superare le resistenze ad esse connesse. L’azione di leadership si configura dunque come un’opera educativa che lavora, pur tra difficoltà e incertezze, per rendere le comunità (siano esse familiari, scolastiche, ecclesiali, geografiche, lavorative, politiche) più consapevoli e lungimiranti o, parafrasando Adriano Olivetti, luoghi in cui “gli strumenti di azione culturale e sociale” sono coltivati con cura e finalizzati ad uno sviluppo integrale. Prima di tratteggiare questa declinazione italiana di una leadership adattiva comunitaria esaminiamo le caratteristiche differenzianti dell’approccio adattivo. La postura di Leadership In “Real Leadership. Helping People and Organizations Face Their Toughest Challenges”, Dean William, collega di Heifetz e Linsky alla Harvard Kennedy School of Government, descrive la leadership come un’attività di “orchestrazione dell’apprendimento collettivo sui problemi complessi”. Per Williams la “vera leadership” si caratterizza quindi più per la sua funzione di abilitazione che di controllo dei processi di cambiamento: un’accezione che si distanzia molto da modelli teorici e concezioni popolari che identificano la leadership con l’indicare la via e il persuadere gli altri a seguirla, funzioni che, seppur rilevanti, risultano insufficienti per affrontare le sfide complesse – esacerbate e rese ancor più evidenti dalla pandemia in corso – con cui le organizzazioni e le comunità devono confrontarsi. Come antidoti al pericoloso binomio “leader-follower” si stanno dunque facendo strada, pur non senza difficoltà, nuove nozioni di leadership che mirano a responsabilizzare tutti coloro che devono 3 compiere il lavoro necessario a far avanzare le proprie comunità, talvolta anche mettendo in discussione i loro valori, le loro abitudini e priorità radicate. Tra queste emerge per il rigore della sua analisi e per l’integrazione tra le sfere individuale e sistemica l’approccio della leadership adattiva, frutto di decenni di ricerca e pratica alla Kennedy School of Government dell’Università di Harvard. Obiettivo di questo framework è offrire strumenti analitici e pratici con cui concettualizzare e gestire il cambiamento complesso con cui le comunità si confrontano/scontrano quotidianamente. Esso si rivela una risorsa preziosa in questi tempi di importanti riconfigurazioni identitarie, in cui la leadership si caratterizza sempre più in termini di facilitazione di iniziative sistemiche di trasformazione e sempre meno come azione eroica dei singoli. Per Ronald Heifetz e Marty Linsky “esercitare leadership significa fare un passo dentro un sistema in nome di un purpose”, ovvero un contributo, un ideale forte che “infuoca” l’azione. Quest’immagine – che rende appieno la natura sperimentale, diffusa e molto fisica del lavoro di leadership – enfatizza la dinamicità di quella che è, a tutti gli effetti, un’attività, pur troppo spesso pericolosamente cristallizzata e personalizzata nel sostantivo ‘leader’. Il passo rappresenta l’intervento, sempre consapevole, ancorché non necessariamente efficace, in una situazione, in un sistema, che ci sta a cuore e che desideriamo modificare per avvicinarlo alla realizzazione del suo potenziale. Questa scelta porta sempre con sé rischi rilevanti, in quanto mette in discussione lo status quo e innesca dinamiche di resistenza e di opposizione da parte di coloro che temono di perdere qualcosa a causa della nostra azione sul sistema. In questo passo confluiscono le attività preparatorie di diagnosi e di interpretazione, componenti fondamentali, benché trascurate, dell’azione di leadership, che viene spesso ridotta a una corsa frettolosa verso la risoluzione dei problemi. Diagnosi e interpretazione di ciò che ci circonda, delle dinamiche che regolano la vita delle nostre comunità, possono invece essere immaginate come le gambe che sorreggono ogni passo di leadership e ne determinano la forza. Più i muscoli di queste gambe sono allenati a sostenere il peso dello slancio e a rallentare la naturale ricaduta a terra, più il passo riuscirà bene. Se l’esercitare questa muscolatura è dunque una parte essenziale del lavoro di leadership, ribadire la necessità e l’accessibilità di questo esercizio diventa a sua volta un antidoto alle concezioni divinatorie ancora molto diffuse, che descrivono la leadership come una qualità innata donata a pochi eletti. 4 La radice indoeuropea “leit”, da cui deriva la parola ‘leadership’, ci rimanda inaspettatamente all’immagine dei segniferi delle armate antiche, i portatori di stendardo, coloro che, precedendo gli altri incontro al pericolo del fuoco nemico, solitamente morivano per primi, ma spesso avevano un ruolo fondamentale nel far avanzare il fronte. Questa etimologia non può non impattare il passo su descritto che, abbandonata ogni idealizzazione, diventa più una lotta a corpo libero, fatta di ripetuti avanzamenti e indietreggiamenti. Se in alcuni casi il passo della leadership può essere facilitato o protetto dalla sfera di autorità di chi lo pratica (o altrui), spesse volte la sua esecuzione è limitata dalle aspettative connesse con tale sfera. Ne deriva che l’esercizio di leadership sia da vedersi come indipendente dai nostri ruoli, come un di più che su di essi, se lo vogliamo, si può innestare; uno slancio, che smuove la ripetitività di un procedere dettato da un copione già scritto. Per sottolineare la differenza tra le forze di autorità e di leadership, Heifetz e Linsky descrivono l’esercizio di leadership come “una danza sul confine della propria sfera di autorità”; danza eseguita sempre in nome del pur-pose, quel “fuoco sacro” che ci spinge a mettere in discussione la nostra stessa sfera di autorità e ad affrontare rischi, resistenza e incertezza. Il lavoro di leadership così tratteggiato è ben espresso dall’idea di ‘postura’, che rende appieno la costante tensione, anche fisica, che lo caratterizza. Questa concezione rimanda inevitabilmente alla saggezza decisionale, o pratica, di aristoteliana memoria. La saggezza è per Aristotele una ‘hexis’, un’abitudine, frutto di ragionamento (diagnosi e interpretazione diremmo noi), che dirige l'agire e concerne le cose che per l'uomo sono buone e cattive” (Etica Nicomachea, VI, 5, 1140 b, 4-6). Sembra che egli descriva proprio la disposizione, il posizionamento attivo, richiesto dal lavoro di leadership. La postura di leadership va infatti acquisita e riacquisita, coltivata, allenata e custodita, in quanto non è innata e il suo mantenimento costa fatica. Deriva dal connubio inscindibile di brutale realismo, antidoto alla naïveté, e di instancabile ottimismo, ovvero l’immergersi con rinnovata speranza nei problemi del mondo al fine di ridurre progressivamente il gap tra status quo e potenzialità. Per Marshall Ganz, ideatore della prima campagna elettorale di Barack Obama, questo atteggiamento altro non è che l’immaginazione profetica che trapela dalle pagine dell’Antico Testamento. Immaginazione che si traduce in azioni ponderate, sperimentali e creative, coraggiose ed empatiche, disturbatrici e protettive allo stesso tempo, in un lavoro che coinvolge 5 testa, cuore e mani/piedi. Per Samuel Coleridge questa saggezza altro non è che il "senso comune in misura non comune"; la capacità, tutta allenabile, di vedere i sintomi individuali di una sfida adattiva e di unirli tra loro in un movimento di mobilitazione collettiva. Leadership e adattamento Nel ripensare (o riscoprire?) la funzione del lavoro di leadership, Heifetz e Linsky hanno tratto ispirazione dalla biologia darwiniana, in cui l’evoluzione della specie è data da una commistione di conservazione e di perdita. L’esercizio della leadership viene descritto come l’opera di mobilitazione di un gruppo di persone con lo scopo di farle lavorare sulle sfide complesse con cui si devono confrontare per risolverle progressivamente e così prosperare (thrive). Il concetto di prosperità (thriving) è centrale in biologia evolutiva e deriva dalla riorganizzazione del DNA di una specie così da permettergli di adattarsi alle nuove circostanze ambientali. Metafora vuole che l’azione di leadership preveda sia la valorizzazione del patrimonio genetico già consolidato, che un’opera di acquisizione di nuovo DNA necessario per il rinnovamento. Proprio questa acquisizione va di pari passo con la necessaria perdita di una certa percentuale di patrimonio, che provoca necessariamente sofferenza e resistenza nel gruppo. Alla dimensione della perdita viene dunque allocata una centralità inusuale, quand’invece la maggior parte delle teorie sul cambiamento non la menzionano neppure. Esercitare la leadership per/all’interno di un gruppo, di una comunità, di un’organizzazione significa infatti mostrare ai soggetti coinvolti che le perdite che dovranno subire non saranno invano, ma renderanno il sistema più adattivo, meglio equipaggiato ad affrontare le sfide complesse che ne minacciano la sopravvivenza; significa fornire loro delle prospettive alternative che gli permettano di superare la legittima paura della mancanza. L’esercizio di leadership richiede quindi sia la compassione per le perdite già subite che la capacità di prevedere le possibili perdite future, che causano paura e immobilismo, e di pianificare risposte adeguate. Così come le evoluzioni biologiche sono state radicali seppur incrementali, anche l’adattamento organizzativo richiede tempo e persistenza: infatti, i cambiamenti più significativi sono prodotti da sperimentazioni graduali che modificano a poco a poco la cultura di un gruppo. Coloro che vogliono praticare leadership per una comunità o 6 a favore di una certa causa devono dunque essere preparati a rimanere in campo a lungo, a non vedere immediatamente i risultati del proprio lavoro e a considerare che i propri sforzi nel tempo si sommano a quelli di altri e vanno a costruire la capacità adattiva dell’organizzazione. Leadership come apprendimento Possiamo chiederci a questo punto per la risoluzione di quale tipo di problemi serva l’esercizio di leadership. Esso non sarebbe necessario se le organizzazioni e le comunità avessero solo a che fare con problemi di cui già conoscono le soluzioni: definiamo questo tipo di problemi “tecnici”. Ma c’è tutta una gamma di problemi che non sono risolvibili soltanto applicando procedure standard o conoscenze tecniche già sperimentate e, soprattutto, non da qualcuno che elargisce soluzioni dall’alto. Queste sfide si definiscono “adattive”, in quanto richiedono sperimentazione, nuove scoperte e cambiamento all’interno della comunità che le sta affrontando. Spesso le comunità sono però tentate di risolvere queste sfide applicando soluzioni note, ingaggiando degli esperti o cercando di rendere più efficienti i processi di gestione. Tali soluzioni vengono frequentemente calate dall’alto, introdotte da coloro che ricoprono posizioni di autorità formale, e sono quindi ritenuti responsabili della risoluzione dei problemi collettivi. Le ‘sfide adattive’, invece, necessitano di diagnosi e di interventi a più ampio raggio, che mobilitino tutti gli stakeholder coinvolti dal problema in questione. La confusione tra problemi tecnici e sfide adattive è non a caso definita “l’errore classico”. Specialmente in momenti di caos generalizzato e mancanza di certezze, la tentazione di risolvere problemi che richiedono adattamento ricorrendo a soluzioni tecniche dispensate da esperti si fa forte. Quando si cercano soluzioni facili a una sfida adattiva attraverso l’intervento degli esperti, si crea però un sistema disfunzionale. Ci si aspetta che l’“esperto” sappia sempre cosa fare e così, sotto il peso delle aspettative, egli spesso finisce per fingere di avere una soluzione o per deludere, e quindi per essere sostituito con un altro. Questa scorciatoia si rivela però spesso deleteria, poiché, non andando al cuore del problema, ma limitandosi a tamponarlo, non fa che aggravarlo. I problemi complessi, composti di numerosi fattori interdipendenti tra loro, non possono infatti essere risolti soltanto attraverso l’applicazione di una expertise tecnica, per quanto all’avanguardia. Al contrario, essi necessitano di azioni di leadership 7 inclusive, community-based, che portino alla luce le cause alla radice di tali problemi. Pertanto, l’adattamento descritto da Heifetz e Linsky, lungi dall’essere sinonimo di adagiamento passivo – come spesso viene inteso nell’accezione italiana – significa “alzare la barra” e “aiutare gli altri a saltare più in alto”. La distinzione tra tecnico e adattivo è indissolubilmente legata a un altro binomio offerto dal modello in questione, quello tra leadership e autorità, due concetti spesso confusi, anche in molti corsi e manuali sul tema. Per Heifetz e Linsky la leadership può essere esercitata anche da chi non detiene autorità e, anzi, la sua efficacia spesso aumenta in mancanza di un riconoscimento formale. Invece che focalizzarsi sui tratti della personalità che contraddistinguono un leader, o sulle caratteristiche da sviluppare per diventarne uno, il framework in questione presenta dunque la leadership come una pratica, un esercizio alla portata di tutti, indipendentemente dal ruolo che ricoprono e dalle loro inclinazioni caratteriali. D’altro canto, questa concezione di leadership come “pungolo evolutivo” dovrebbe sollevare dalle autorità l’onere di dover conoscere tutte le risposte, qualificando l’esercizio della leadership come una postura più interrogativa che assertiva. Chi esercita la leadership accoglie l’incertezza e incoraggia la propria comunità a immaginare nuovi approcci alle sfide che la riguardano. Sviluppando prospettive nuove, anche in contrasto tra loro, si incrementano infatti le opzioni di intervento su una certa sfida e, quindi, di risoluzione della stessa. All’incertezza si accompagna il rischio: più è alta la percezione del rischio, più il sistema opporrà resistenza a chi intende guidare il processo di cambiamento. Non a caso Heifetz e Linsky avevano intitolato il loro primo scritto sulla leadership adattiva “Leadership on the line”, volendo sottolineare non solo la componente di rischio insita nel lavoro di leadership, ma anche la dimensione di liminalità che sembra contraddistinguerla. Questa viene così giustificata: “Le persone non resistono al cambiamento di per sé, bensì alla perdita. Appari pericoloso per gli altri quando metti in discussione i loro valori, le loro credenze e abitudini di una vita. Ti posizioni on the line quando dici alle persone cosa hanno bisogno di sentirsi dire e non che cosa vogliono sentirsi dire. Sebbene tu possa intravedere con chiarezza e passione un promettente futuro di progresso, gli altri si focalizzeranno con uguale ardore sulle perdite che stai chiedendo loro di sostenere” (Leadership on the line, 23). Date queste difficoltà insite nell’esercizio della leadership, non ci dovremmo stupire se, nei più svariati settori della nostra società, osserviamo molta più gestione di routine che leadership. 8 L’approccio alla leadership che abbiamo qui tratteggiato enfatizza dunque l’apprendimento – ossia un confronto continuo con e tra prospettive diverse su una sfida adattiva – che spinga il sistema a ripensare almeno in parte il proprio patrimonio genetico, mettere in discussione atteggiamenti di default altamente sedimentati, adottare nuove prospettive, avviare nuovi modi di lavorare insieme, implementare esperimenti coraggiosi e mobilitare diverse fazioni affinché possano partecipare a questo lavoro ri-creativo. Perché un istituto sulla leadership? In piena pandemia, nel settembre 2020, il lavoro di confronto e apprendimento con le varie comunità italiane sulle loro sfide di leadership trova una casa fisica, nonché molto simbolica. L’Adriano Olivetti Leadership Institute (per brevità OLI), sorge negli spazi recuperati dell’ex complesso servizi sociali Olivetti a Ivrea. L’edificio, realizzato tra il 1954 e il 1959 dai giovani architetti milanesi Figini e Pollini per volontà di Adriano Olivetti, si presenta come un lungo parallelepipedo movimentato da aperture esagonali, preceduto da un ampio porticato sorretto da colonne di granito anch’esse a forma di esagono e coronato da enormi terrazze, il tutto integrato con abbondante vegetazione mediterranea. Le sue linee dialogano con le forme delle fabbriche e con i profili delle Alpi e dell’inconfondibile Serra di Ivrea in lontananza. Gli spazi dell’ex biblioteca, con le scaffalature originali, i muri laccati in rosso e le ampie vetrate, stanno riprendendo vita per ospitare classi, laboratori, incontri. Il progetto dell’istituto, pur abbracciando ampiamente anche l’online, si sta sviluppando in simbiosi con il luogo che lo ospita, originariamente pensato per l’apprendimento, in un modello che, come direbbero Paolo Venturi e Flaviano Zandonai nel loro recente libro “Dove”, “tenta di saldare dimensioni diverse in modo da rinnovare e riproporre il senso di un luogo, così da ricomporre economia e società”. Sulla scia del Kansas Leadership Center che, nella città di Wichita da quindici anni accoglie e supporta le comunità locali nel loro percorso di individuazione e risoluzione delle loro sfide adattive, così OLI vuole essere un laboratorio di leadership, verticale sul tema trattato ma orizzontale nell’incontro con le comunità. La dimensione comunitaria – focus dell’azione culturale e sociale di Olivetti – e il suo potenziale di leadership vengono indagati non solo da un punto di vista teorico, ma attraverso l’esplorazione nel ‘qui e ora’, secondo la metodologia harvardiana del ‘case 9 in point’, che coglie occasioni di apprendimento di leadership nelle dinamiche del gruppo. Alle comunità che si avvicinano alla pratica della leadership adattiva non vengono dispensate possibili soluzioni alle loro sfide di adattamento, bensì viene offerto un framework di diagnosi, interpretazione e intervento finalizzato al loro empowerment e alla loro responsabilizzazione rispetto al processo risolutivo. Esse diventano progressivamente ‘comunità di pratica’ à la Etienne Wenger, dove il lavoro adattivo dei singoli, indipendentemente dai loro ruoli e sfere di autorità, si somma e produce un fronte comune di consapevolezza e mobilitazione. Dallo scambio tra queste comunità a livello locale e nazionale emerge progressivamente un nuovo linguaggio sulla leadership, che plasma la pratica e, nel tempo, si istituzionalizza in nuove modalità di gestione delle sfide complesse di cambiamento. BIBLIOGRAFIA Bringing Leadership Back In, Marshall Ganz e Elizabeth McKenna, cap. 10 da The Wiley Blackwell Companion to Social Movements, seconda edizione. Edito da David A. Snow, Sarah A. Soule, Hanspeter Kriesi e Holly J. McCammon. John Wiley & Sons Ltd., 2019. Dove. La dimensione di luogo che ricompone impresa e società. Paolo Venturi e Flaviano Zandonai. Egea, 2019. “Etica Nicomachea” di Aristotele. Bompiani Testi a fronte, 2000. “La Pratica della Leadership Adattiva. Strumenti e Tattiche per trasformare le organizzazioni e le comunità” di Grashow, Heifetz e Linsky. Franco Angeli, 2018 (seconda edizione). “Leadership On the Line: Staying Alive Through the Dangers of Leading”, di Ronald Heifetz e Marty Linsky. Harvard Business School Press, 2002. “Real Leadership. Helping People and Organizations Face Their Toughest Challenges” di Dean Williams. Berrett-Koehler Publishers, 2005.